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Maria Grazia Maiorino:  romanzo,
ANGELI A SARAJEVO
Presentazione al Laboratorio Culturale di Ancona

 

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PRESENTAZIONE DI  “ANGELI A SARAJEVO” di Maria Grazia Maiorino

 Relatrice Luciana Montamari Presidente di "Laboratorio Culturale"

 

Come presidente di Laboratorio Culturale dò il benvenuto a tutti i presenti. Questo incontro è stato promosso dalla nostra associazione e rientra nell’ambito del progetto “Leggendo e pensando”, che porto avanti da circa quindici anni, con il quale sono stati presentate numerose opere, soprattutto di poeti e narratori marchigiani.

Oggi abbiamo l’onore di avere tra noi la poetessa e scrittrice Maria Grazia Maiorino, nata a Belluno, ma anconitana d’adozione. In lei si condensano comunque spiritualità e culture diverse, data la differente origine dei suoi genitori: veneta la mamma e meridionale, cioè lucano, il padre.

Maria Grazia Maiorino si è affermata  prima di tutto come poetessa, sostenuta, nella timidezza degli esordi, dal poeta Franco Scataglini, che aveva compreso il suo valore.

La sua prima raccolta di poesie E ho trovato la rosa gialla è uscita nel 1994 con la casa editrice Forum. Poi si sono succedute numerose raccolte di poesie fino all’ultima che è stata pubblicata dalla Pequod nel 2011 con il titolo I giardini del mare.

Il suo primo romanzo L’azzurro dei giorni scuri (Pequod 2006) è stato l’occasione del mio primo incontro con Maria Grazia Maiorino. Lessi infatti tutto d’un fiato il romanzo e decisi di presentarlo nella sede di Laboratorio Culturale credo nello stesso anno della pubblicazione.

Permettete che spenda qualche parola su L’azzurro dei giorni scuri, un romanzo ricco di pathos, con il quale la scrittrice entra in punta di piedi nell’animo e nella psicologia di una persona che gradualmente sta sprofondando nel buio dell’Alzheimer. Con un’abilità straordinaria la narratrice riesce a recuperare la personalità della protagonista e l’arco della sua esistenza, attingendo a brandelli del suo passato e facendo rivivere intorno a lei le persone che l’hanno amata. Voglio riferire una riflessione molto significativa di Tiziana, la figlia della protagonista:

I risultati con un vecchio? – si chiede Tiziana. Si dà cento per avere uno, dieci o niente, almeno così sembra. Ma non è vero. Nel dare ci misuriamo con noi stessi, con la nostra coerenza, con la nostra capacità di non dimostrare niente a nessuno, di accogliere tutta la festa che c’è in un viso che s’illumina riconoscendoci. Tutta la memoria contenuta nel ricordo di un nome. Ma che cos’è la vita in fondo se non questa possibilità di dare e ricevere amore? Che cos’è l’odio se non la rabbia di esserne esclusi, come prigionieri, con un cielo sempre dietro le sbarre? (p. 161)

 

Ma oggi siamo qui per presentare Maria Grazia Maiorino nella veste di autrice di racconti.

Nel 2013 è uscito presso la Gwynplaine di Camerano L’America dei Fari, che mi ha fatto immergere in tante vicende, ma di cui ricordo soprattutto il racconto che dà il titolo alla raccolta, incentrato sulla figura del vecchio guardiano del Faro del colle Cappuccini di Ancona: persona singolare, un po’ uomo di mare, un po’ poeta, un po’ contadino. E sullo sfondo la Dorica, con il duomo nella collina di fronte e il mare azzurro che la lambisce intorno quasi come un’isola.

Ma non sulla prima raccolta mi voglio soffermare oggi, ma sull’ultima, uscita sei mesi fa, e precisamente nel novembre 2015, sempre con la Gwynplaine . Il titolo, Angeli a Sarajevo, è tratto da uno dei primi racconti.

Pur nella varietà delle vicende, una caratteristica accomuna tutti i racconti di Maria Grazia Maiorino: la capacità dell’autrice di svelare il mistero del vivere, di affondare lo sguardo nel mondo interiore dei personaggi per fare emergere le loro emozioni, cogliendo contemporaneamente, attraverso un gioco di specchi, rimandi e associazioni, lo scorrere del tempo.

L’elaborazione del racconto procede con frequenti flash-back, che frammento dopo frammento riescono a ricostruire una storia e a svelare la personalità dei protagonisti, offrendo un’approfondita chiave di lettura del testo.

Mancano ampie cornici e la narrazione prende forma al di fuori di circostanziate descrizioni di luoghi, personaggi e contesti storici.

L’interesse dell’autrice è quello di inserire con immediatezza il lettore nel narrato.

Si entra all’interno del racconto all’improvviso, con fatti banali e in ambienti legati alla quotidianità.

Sembra che il racconto, più che prendere l’avvio, si inserisca nella linea del tempo e il lettore si trova nella stessa condizione dello spettatore che si inserisce nella trama di un film a proiezione inoltrata.

A poco a poco il contorno prende forma e la narrazione si sviluppa attraverso le azioni, i sentimenti e i ricordi dei personaggi, lasciando in ombra i grandi eventi della Storia.

Per esempio l’incipit del primo racconto, Sirene, propone la descrizione di un salotto, che ha l’aspetto di un luogo vissuto. Vengono evidenziati oggetti comuni, soprattutto fotografie, la disposizione dei divani e degli altri mobili.

La protagonista si esprime con un io narrante ed emerge subito uno spaccato di vita solitaria all’insegna della scrittura, dell’ascolto della musica, dalla rievocazione di persone assenti. Quel salotto perciò si popola di fantasmi.

Ed ecco apparire la figura di un’amica americana, conosciuta negli anni Ottanta in California, in occasione di un soggiorno finalizzato soprattutto all’approfondimento della lingua inglese. Non è felice la protagonista in quel periodo, perché sempre più apparivano crepe nel rapporto con suo marito. Ritornata in Italia comincia la corrispondenza epistolare in lingua inglese tra le due donne, simili e diverse nello stesso tempo.

Tutte e due romantiche, alla ricerca dell’amore autentico, amanti della natura, ma contemporaneamente diverse come personalità. Più giovane e dinamica l’americana, pronta a cambiare lavoro e a viaggiare da uno stato all’altro, sempre aperta alle relazioni con gli altri. Impegnata nelle battaglie per l’emancipazione femminile l’anconitana, ma sola, malgrado la coralità che la circonda, frustrata perché quella lotta le appare senza bellezza. Si sente divisa in due, con un fermento interiore che non trova spazio nei collettivi e nelle riunioni, dove le persone appaiono astratte, cioè senza evidenziare ciò che sentono dentro.

Significativo uno strappo che compie la protagonista per ritrovare la sua identità.

L’unica vera intimità era quella dell’amore, ma quel privato non diventò mai politico, almeno per me. Anch’io era astratta. Nessuno scambio reale. Nessuna utopia impossibile. Nessuna emozione vera, distinta, ma una continua ansia di cambiare. Sembrava che bastasse stare insieme per scoprire chi si era e dove si voleva andare.[ … ]

Forse, my dear sister, mi diresti che sto semplificando, forse per tanti andava bene così, ma non per me. Io avrei dovuto imboccare un’altra strada e soprattutto avrei dovuto trovare “le parole per dirlo” dentro di me, ricominciando da capo.

Dall’infanzia, dagli strappi e dai limiti, da sogni e da territori sconosciuti alla ragione. Credo che tutto sia cominciato da una coincidenza: trovare una rosa fiorita, invernale, splendente, proprio nel giorno in cui non ritornai in un convegno di donne arrivate da tutte le Marche: la sede era un palazzo fatiscente del centro storico, aveva un bel nome, Centofiori, ma la nostra lotta era senza bellezza. La domenica pomeriggio andai a sfogare la mia delusione al mare. Fu una fuga, come più tardi quella dal matrimonio. La rosa mi chiamò e io le risposi scrivendo in una poesia quello che non si poteva dire alle donne del convegno. Dopo tanti anni posso dire, cara Rachel, di aver continuato a sfogliare i petali di quella rosa. (p. 13)

 

La rosa assume quindi un valore emblematico: rappresenta la bellezza, la poesia, la nuova identità della protagonista, che nel racconto assume rilievo nel confronto con l’amica, confronto favorito dalla distanza, che permette maggiori aperture e confidenze.

La storia di quest’amicizia, che si nutre di lettere, di ospitalità reciproca e brevi viaggi assieme, in America o in Italia, di rari contatti telefonici o via e-mail, si snoda attraverso una scrittura personalissima, dove passato e presente si mescolano senza sforzo, facendo risaltare la straordinaria figura di Rachel, donna ricca di energia, capace di intuire i bisogni degli altri, coraggiosa nell’affrontare la difficile prova di una grave malattia.

Leggiamo un brano dove rapidamente si colgono due incontri delle due amiche, uno in occasione del secondo viaggio in America, l’altro in occasione della venuta ad Ancona di Rachel:

Ritorno nella tua minuscola casa a Oackland. Seconda America. (pp. 14-15)

 

E mi piace proporre la conclusione del racconto:

Metto dentro lo scrigno della nostra relazione il faticoso cammino compiuto per vivere la mia vita. Compresa questa tappa di solitudine estrema, che mi insegna, quasi mi costringe, ad ascoltare più attentamente ogni voce, oggetto, foglia, nuvola, ruga, sguardo, ombra, silenzio. Ogni voce ripete che non siamo soli, finché riusciamo a sentire le vibrazioni del mondo che si muove intorno a noi.  (p. 16)

 

Il secondo racconto Angeli a Sarajevo è la storia di una donna, di nome Antonia, che ha per sfondo la Seconda guerra mondiale, una storia ricca di pathos, molto coinvolgente. L’autrice anni fa aveva intervistato molte donne che erano vissute in quel periodo drammatico, ma la storia di Antonia era balzata con più prepotenza rispetto alle altre tanto da indurla a dedicarle un racconto, una specie di risarcimento nei confronti del destino crudele che si era abbattuto su di lei.

Inquadriamo innanzi tutto i fatti.
Antonia è una giovane sposa appartenente ad una famiglia contadina. Ha il marito al fronte, precisamente nella Yugoslavia. Vive in un paesino di montagna, dove giunge, sfollata dalla città, una famiglia, che trova ospitalità nella casa dei suoi genitori. Questa famiglia ha un figlio militare, di nome Giacomo, che giunge nel paesino per una breve licenza. Egli vuole aiutare Antonia nei lavori pesanti e un giorno l’accompagna nel bosco per raccogliere la legna. Sono giovani e si lasciano travolgere dai sensi. Il giorno dopo egli riparte per il fronte.

Questo è l’antefatto che viene recuperato nel corso della narrazione attraverso efficaci flash-back.

La storia di Antonia, nel racconto di Maria Grazia Maiorino, comincia in un disadorno stanzone di un ospedale, che accoglie il reparto della maternità.  Ha dato alla luce una bambina e nessun familiare è mai venuto a farle visita. Nessuno si presenta nemmeno nel momento in cui viene dimessa dall’ospedale. Contro il parere di un medico, ella si avvia a piedi verso il suo paese, che dista 7 Km, investita dal vento gelido di dicembre. Ha avvolto la bambina nel suo scialle e ha una  borsa abbastanza pesante che la ostacola, ma pensa di farcela. E’ giovane e abituata a portare  pesi.

A questo punto la scrittrice indugia.

Antonia percorreva la strada maestra, più sicura d’inverno.[ … ]

Dormiva. Amavi la sua vita più della tua, ma disperatamente, come stessi per lasciarla. (p. 20-21)

Da questo brano noi possiamo cogliere la tecnica narrativa di Maria Grazia Maiorino che abilmente inserisce nel cupo presente squarci del passato e anticipazioni del futuro, intervenendo all’interno del racconto con personali riflessioni.

E che parte hanno i due uomini che potrebbero dare una svolta nella storia di Antonia e della piccola Anna? La donna pensa che “entrambi avevano i lineamenti induriti nello sguardo del rifiuto. Il figlio non lo volevano, per loro era solo la prova di una colpa.”

Per questo decide di non avvertire suo marito e di non impegnare il giovane Giacomo. Lei avrebbe fatto da padre e da madre alla bimba.

Il fratello, quando giunge stremata dall’ospedale a casa dei genitori, la scaccia, perché con il suo comportamento aveva disonorato la famiglia. E così Antonia si trova a combattere, mentre sta per finire la prima, una seconda guerra, quella contro i pregiudizi e i falsi perbenismi della società. Morirà di emorragia nella casa coniugale, dopo avere allattato la bambina.

Nel 1993 l’Europa si trova coinvolta in un’altra guerra. Nell’altra sponda dell’Adriatico, e precisamente in Bosnia, dei popoli si massacrano.

La scrittrice si documenta sui giornali. La sua attenzione viene attratta dall’immagine di un bimbo solo, in mezzo alle macerie, con accanto una porzione di cibo. In quel cumulo di rovine egli appare come un simbolo di speranza, di voglia di sopravvivere. Accanto all’immagine c’è un articolo con un titolo intrigante: Resistono tra le macerie gli angeli a Sarajevo.

Leggiamo insieme questo trafiletto insieme con le riflessioni che suscita nella scrittrice. (p .25)

 

In vari racconti appare l’intervento del destino che ricongiunge in qualche modo strade che si erano separate, percorsi sentimentali che si erano affievoliti o improvvisamente dà spazio a sentimenti vissuti in segreto.

Penso al racconto Cenerentola alla rovescia in cui la protagonista, Laura, va a una festa di Capodanno e all’inizio si annoia, perché conosce poca gente e con il marito vive un momento di stanchezza sentimentale. Improvvisamente accade un evento, proprio a mezzanotte, che porta in luce sentimenti sopiti. La narratrice aveva sparso vari segni nel racconto per farci comprendere il mondo interiore dei protagonisti, ma, come in un libro giallo, la sorpresa del finale rimane. Efficace non solo la rappresentazione dell’animo femminile, ma anche quella della psicologia maschile, che si svela a poco a poco ed emerge soprattutto in una lettera posta a conclusione del racconto.

 

Proseguendo il discorso sui fili sentimentali che misteriosamente si riannodano, sulle emozioni che improvvisamente si liberano, voglio menzionare un bel racconto che s’intitola Le cose che finiscono. I protagonisti sono due cugini, Silvia, residente in Ancona, quarantenne, separata, con un figlio lontano, e Gerardo, di qualche anno più giovane, sposato con due figlie, residente in un paese del Sud.

Gerardo fa il rappresentante e gira per tutt’Italia. Un’estate capita ad Ancona e Silvia lo conduce a Portonovo. Parlano del più e del meno sullo sfondo del mare. Gerardo racconta il suo impegno in vari ambiti, la professione, il lavoro agricolo, la politica, il sindacato e Silvia si chiede perché voglia riempire tutti gli spazi della sua vita, quasi volesse soffocare qualcosa. Anche Silvia racconta di sé, ma non svela tutte le sue attività, per esempio il disegno e la pittura, pensando che Gerardo non possa apprezzare un’attività artistica.

Il racconto ha una virata inattesa, quando i due protagonisti si trovano vicini alla Chiesetta romanica di Santa Maria. “Perfettamente conservata, La pietra di un bianca abbagliante contro l’azzurro.” Improvvisamente Gerardo la bacia e Silvia prova una scossa quasi a sua insaputa”.

Il gioco dei sentimenti, che ha radici lontane, almeno per Gerardo, trova la sua complementarità nel gioco temporale, dove il passato si riannoda con il presente e il presente sprofonda nel passato.

Riviviamo con la protagonista un’incantata notte di lucciole:

Vincenzo, il suo primo amore, le vacanze al paese, lei adolescente, gli amici. Gerardo forse aveva seguito i grandi nella scorribanda notturna per i campi argentati a vedere le lucciole. Non lo ricordava più. Lo aveva sempre considerato un bambino .Poi il cugino più giovane, il cugino sposato che abitava al sud. (p. 89)
La sera, prima di addormentarsi, Silvia ripensa alla sua notte di lucciole di tanti anni prima. (pp90-91)

E Gerardo è presente, ancora piccolo, ma già cova un’ammirazione, un sentimento amoroso per quella cugina di città, che andava via con l’estate. Un sentimento sotto traccia che rimane un sogno e che nello sfondo azzurro di Portonovo divampa.

 

Un bel racconto è quello autobiografico incentrato sulla figura del nonno della scrittrice, che come alpino aveva partecipato alla Prima guerra mondiale. S’intitola La Kodak del nonno.  Di lui Grazia conserva preziosi album di fotografie, scattate dal nonno per cogliere la vita in trincea, ritrarre i compagni di guerra o i profili delle montagne. Sotto ogni foto un’annotazione per immortalare un pezzetto di storia. La Kodak era un dono che l’alpino aveva ricevuto da un ufficiale ferito gravemente nella prima linea e che lui aveva conservato gelosamente per tutta la vita. La macchina fotografica costituirà l’occasione che metterà in contatto i due protagonisti del racconto: il vecchio alpino di nome Giuseppe originario di Belluno e Filippo, un ragazzo senigalliese . L’incontro avviene nella residenza “Opera Pia Mastai Ferretti” di Senigallia.

Con abili flash-back la scrittrice ogni tanto spalanca una finestra sul passato di Giuseppe e ci fa comprendere come da Belluno sia approdato vicino ad Ancona, la città che lui ricordava perché nel 1914 era stato inviato con i commilitoni nelle Marche per sedare i tumulti della Settimana Rossa. Alla morte della moglie, aveva deciso di avvicinarsi alla figlia, che risiedeva con la famiglia in Ancona, desideroso soprattutto di intensificare i rapporti con la sua adorata nipotina. Il rimpianto per le sue montagne comunque era rimasto.  Leggiamo questo bel brano:

 Un pomeriggio, poco dopo l’arrivo di Giuseppe …(p. 126: le prime quattro righe) Poi:

Dopo una sosta davanti alla chiesa di Santa Maria delle Grazie ….

Fino a … nel grembo del Tutto. (p. 127)

 Giuseppe con la sua Kodak insegna a Filippo l’arte della fotografia, ma soprattutto affascina il ragazzo con i suoi racconti. E mentre l’alpino colma un vuoto nell’animo di Filippo, che ha perduto prematuramente i suoi nonni, il ragazzo fa rivivere a Giuseppe gli indimenticabili momenti che aveva trascorso con Grazia quando era piccola. I ricordi si risvegliano anche attraverso le fotografie, soprattutto una dove è presente il cappello di alpino. E sentiamo che cosa scrive sul cappello: appare il passato, ma si sogna il futuro (p. 132):

Non troverete quasi mai il cappello con la penna nera nella casa di un alpino morto. O lo vedrete sfilare, posato sul cuscino, portato da un commilitone, nei cortei delle adunate. Pensieri lucidi, taglienti, che riportavano intatto il dolore degli anni di guerra, il corpo a corpo con la montagna, le marce notturne, il freddo, la morte sempre in agguato, anticiparono sogni venuti a dare sollievo, disegnando sentieri che salivano dolcemente verso le cime e stelle alpine confitte sulle rocce come piccoli astri di velluto.

Prosegue fino a:

  W l’Italia!   (p. 133)

 

Per concludere ho scelto l’ultimo racconto. La casa delle iris, che procede con una linea sinuosa e dove le storie dei personaggi si intrecciano e si confondono.

La protagonista, Alida, giunge in una villa di Camerano, dove è stata invitata per festeggiare il sessantesimo compleanno di Serena, un’amica di vecchia data.

Alida incrocia vari personaggi, che le fanno ricordare pezzetti del suo passato.

Si srotolano nel racconto soprattutto due  storie: quella di Serena e di suo marito Gianni e quella di Alida, che ritrova a Camerano l’amico Stefano, accompagnato da sua moglie. Stefano aveva occupato un posto importante nel cuore di Alida, quando entrambi erano molto giovani. L’incontro risveglia in Alida un sentimento, un senso di rimpianto mai del tutto sopito.

Mentre la storia di Serena e di Gianni si sarebbe conclusa con la solidità di un matrimonio, le strade di Stefano e Alida si sarebbero separate.

Erano gli anni in cui Alida aveva scoperto Che Guevara, il Sessantotto e l’ansia di libertà, mentre Stefano inseguiva altri progetti.

Si partiva per i campi di Emmaus come ondate di uccelli migratori, nell’estate del Sessantotto:l’appuntamento era in Francia, ma le tre coppie di amici si divisero alla frontiera per una banale dimenticanza. Stefano non aveva la carta d’identità e dovettero ritornare indietro. Ricorda la delusione, mentre erano incolonnati nel traffico della costa, un campo di lavoro in Italia le sembrava molto meno attraente in quel momento e non erano neanche sicuri di trovarlo. Adesso rivede visi, visi allegri di ragazzi che sorridevano stringendole la mano, avevano gli abiti sporchi, erano circondati da vecchi materassi, rottami di ferro, giornali. La rassicurarono che lì avrebbe trovato le cose meravigliose che cercava. Ricorda il distintivo, la tavola a ferro di cavallo, i battimani. Lo squallore del luogo, un vecchio edificio nella periferia di Milano, subito cancellato.

[…] Alida aveva confusamente scoperto Il Diario di Che Guevara e i fermenti del Sessantotto, un sentimento di libertà che usciva dalle regole dell’educazione cattolica e le sembrava più eccitante rispetto agli interminabili discorsi sull’amicizia, l’impegno, la vita comunitaria, insomma i progetti di Stefano, nei quali sembrava non esserci spazio per i bisogni individuali. (pp. 146-147)

 Ora Alida vorrebbe chiedere a Stefano che cosa aveva rappresentato per lui il Sessantotto, perché anche loro, senza saperlo, ne avevano fatto parte e ne avevano raccolto il seme, ma Stefano era chiuso nei suoi pensieri e Alida rimane con le sue domande senza risposta.

 Nei racconti ci sono bellissimi paesaggi, che non sono mai fini a se stessi, cioè prose d’arte, ma palpitano e sono intrisi dei sentimenti e della sensualità dei personaggi. Vediamo Alida e Stefano in un sentiero del monte Conero che conduce alla casa delle iris.

Come quando percorrevamo il sentiero del Monte per raggiungere la casa delle iris.

(pp. 142-143) 

fino a

…  come una promessa rinnovata e destinata a durare.

 

ALTRI PAESAGGI:

Ecco tra quelle foto di famiglia gliene appare una [ …]

Gliela aveva scattata Stefano alla fine di una passeggiata al porto, quando era ancora uno spazio aperto, suggestivo in qualsiasi ora del giorno, e soprattutto al tramonto, l’ora preferita da Alida, che aveva sempre conservato nel cuore la sua prima visione di Ancona, in cartolina: un golfo sospeso tra acqua e cielo, quasi liquefatto in rossi accesi e ombre viola, punteggiato di luci. Nella foto, dietro di lei c’era la Lanterna verde con il sedile rotondo, in fondo a un molo che non esiste più. “La casa delle iris” (p. 148)

 Vediamo ora ciò che si vede dalla villa di Gianni e Serena a Camerano:

Abitare questo paesaggio non è abitudine per loro ma familiarità.
Un misto di attesa sicura e di scoperta che si rinnova a ogni stagione, soprattutto nella tarda primavera e in estate, quando le colline si popolano di ginestre accoccolate come greggi arrivate da chissà quali transumanze, e si cingono di girasoli che sembrano smalti, e ovunque risplendono i raduni del giallo alternandosi con i marroni bruciati del sorgo. I colori esplodono all’improvviso per chi guarda dalla panchina, i verdi sono continuamente cangianti, ti attirano a un’esplorazione ravvicinata, toccare, essere in mezzo, nel verde, nel viola, nel giallo, ascoltare, odorare, gli stradelli sono infiniti, si snodano tra le colline, tutti alla fine portano al mare. Il respiro del mare lo senti nei venti che salgono dalla costa, arriva fin dentro le stanze al pianterreno della casa, tutte affacciate sul prato.
(pp. 150-151)

 

Diceva Roland Barthes che la scrittura è la scienza del godimento del linguaggio. Leggendo Angeli a Sarajevo avvertiamo il piacere di una scrittura che si snoda apparentemente semplice e piana, ma che in realtà leviga gli oggetti, scandaglia le profondità dell’animo per cogliere la quotidianità del vivere, il disagio, ma anche gli spiragli che danno luce e significato alla nostra esistenza.

 

Luciana Montanari

Ancona, 27 maggio 2016

 

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