Agostino Fattori

 

Fattori Agostino (Gatteo provincia di Forlì 18 novembre 1886- Urbino 6 aprile 1931), compiuti gli studi ginnasiali in Urbino, frequenta, dal 1903 al 1906, il Liceo a Senigallia. Si laurea nella Reale Università di Bologna nel 1911. Vincitore di concorso per la cattedra di Latino e Storia, viene assegnato al Reale Istituto Magistrale di Campobasso: nel 1925 viene trasferito in quello di Urbino. L’anno seguente il Ministero gli affida l’insegnamento di Lettere italiane e latine nel Reale “Liceo Raffaello” di Urbino. Membro di numerose associazioni di cultura e patriottiche, fra le quali la “Reale Accademia Raffaello”. Dopo una brevissima malattia muore nell’Ospedale Civile di Urbino la sera del 6 aprile 1933. Agostino Fattori lascia numerose pubblicazioni in prosa e in versi, e moltissimi articoli pubblicati nelle riviste e nei giornali.

 

LA CANZONE D’URBINO

 

Che baleno s’indugia, oggi, nell’aria,

vecchia città ducale,

e fra le anguste solitarie strade?

Quale profumo misterioso svaria?

Quale inno batte l’ale?

Quale velo d’oblio consunto cade?

Quali potenti spade

rompono i lacci che teneano avvinta

la tua speranza indoma? Ecco ora vola,

con la forza dell’aquila è sospinta

in alto, e canta e aspetta.

Ormai non sei più sola,

o città di mia madre, nè negletta.

Tornano i duchi alla lor casa avita;

tornino i segni della antica vita!

 

Quando l’eccelsa porta del Palagio

si chiude e la campana

lenta annunzia ai mortali il mezzogiorno;

ed essi dal lor torbido disagio

alzan l’anima vana

mirando il viso dei figlioli intorno;

come un suono di corno

passa per le silenzïose sale

echeggiando e dilegua alto chiamando.

Ed ecco in una pompa trionfale

conti, duchi, guerrieri,

il cantore d’Orlando

e quel d’Erminia, artisti e cavalieri,

e belle dame, fior di cortesia,

le signore duchesse, Emilia Pia.

 

“O Signori d’Urbino e nostri, torna

“dopo tanto fluire

“di tempo lo splendor vostro sul mondo?

“L’aquila che della corona s’orna

“ricomincia a garrire?

“scuote l’ali e riprende il vol profondo?

“Che palpito giocondo

“dalla montagna corre alla pianura!“

“La nostra stirpe ecco ritrova ancora

“i segni della vostra insonne cura.

“Voi ci voleste fieri,

“baldi come l’aurora

“che vittoriosa impenna i suoi corsieri.

“La notte va, chè non è eterna. Lieti

“attendiamo di Dio gli alti decreti.”

 

Il duca Federico parla: “L’armi

“diedi agli uomini miei;

“furono il plinto della mia potenza.

“Poi di rossi mattoni e bianchi marmi

“questa elevar poteie

“reggia, con imperial magnificenza.

“Ogni arte ogni scïenza

“sempre ebbi cara: musici e poeti

“filosofi e scienziati meco volli;

“crebbero i mirti all’ombra dei laureti.

“Dalle guerre lontane,

“trovai in questi colli

“ le creature del mio cuor sovrane:

“le nove Muse e decima, più vera,

“quella che a Dio ci unisce, la preghiera.”

 

Dice Battista Montefeltro: “Donna,

“aprii l’ala del verso

“all’estatico sguardo del guerriero.”

E la Gonzaga: “A me, come a colonna,

“nel tempo buono e avverso,

“s’appoggiò tutto il piccoletto impero.

“E volsi il mio pensiero

“a sovvenire i poveri nel nome

“di Gesù che, con braccia aperte, prega.”

Eleonora dalla nera chioma

Parla con la Farnese;

e Lucrezia si piega

verso Francesco a perdonar le offese.

Vittorïa Colonna assorta tace;

Raffaello risogna la sua pace.

Come nel maggio aulente il gelsomino

mescola la sua grazia

con la rosa, che arde e che sospira,

col casto giglio, ebbro d’amor divino,

e sovr’essi si spazia

il grido della rondine delira,

dalla folla che gira

lenta e solenne tale sorge il coro

delle memorie e dei pensier possenti.

Coronati di rovere ed alloro

van sull’aerea loggia

ad ascoltare i venti,

che s’ogni parte, sulla città roggia,

portan voci d’amor, canti di gloria;

l’inno immortale della nostra storia.

 

Gubbio, la primogenita fedele,

memore di Francesco

l’alto Duomo e le cupe torri inalza;

Pesaro manda in mare le sue vele,

da Senigallia il fresco

dolore, come getto d’acqua, balza;

la Villanella scalza

sul Cesano si specchia e s’inghirlanda:

sulla romana via, Cagli guerriera

vigila: su San Leo c’è la miranda

visïone di Dante.

Piccola, balda, altera,

attende il fato suo Castel Durante.

Dal piano al monte, dalla selva al mare

S’ode un canto infinito oggi echeggiare.

 

Ma il Cardinale, fiso al cielo d’oro

ove s’ode cantare

tutta la melodia della gran gesta,

giunte le mani, mormora, : “T’adoro

“Dio, ch’hai voluto dare

“segno di Tua potenza manifesta

“in questa Casa, in questa

Città, che eternamente è luminosa.”

Poi, volto agli altri: “Discendiamo - è l’ora -

“dove, sotto la Cupola, riposa

“il Martire Patrono.

“Nella bella dimora

“s’effonde delle nostre preci il suono.

“Profumata d’incenso, la preghiera

“salga da cuore che ringrazia e spera.”

 

L’organo inalza l’anima potente

in un immenso coro

pieno d’ogni speranza e d’ogni affanno.

Sul trono assiso sta papa Clemente

- come in concistoro -

vescovi e cardinali attorno stanno.

Entrano i Duchi; vanno

verso l’Altare e pregano: “Signore,

“che hai coronato questa città nostra

“di tanta gloria e di tanto splendore,

“vedi come rovina?

“come trista si mostra?

“come all’ultimo giorno s’avvicina?

“Salvala, Tu che puoi! San Crescentino,

“Santo Patrono, risolleva Urbino!”

 

Nel trecentesimo anno,

rapida al Duce vola, o mia canzone.

Lo troverai che medita e lavora

per cingere alla Patria altre corone.

Chi t’è scorta? o ti guida?

A lui che il mondo onora

va sicura e alla sua bontà t’affida.

Con Lui rimani fin ch’Egli non dica:

“Urbino nuova uguaglierà l’antica”.

 

Agostino Fattori,  Urbino, 29-30 maggio 1931

 

Bibliografia: “URBINUM”, 1931, num. 3-4